La Maison de la rue en pente Regia di Yukihiro Morigaki 2019 Arte TV. Commento di Aurora Gentile

 

La Maison de la rue en pente Regia di   Yukihiro Morigaki 2019 Arte TV

 

 

 

 

La maison de la rue en pente creata da Yukihiro Mori è una serie di 6 episodi da 50 minuti, basata sul romanzo di Mitsuyo Kakuta pubblicato nel 2016 e trasmessa su Arte Tv (2019). La serie attraverso un processo  ad un caso d’infanticidio che si svolge udienza dopo udienza fino alla sentenza conclusiva tratta con sorprendente accuratezza il ruolo occupato dalle donne nella società giapponese.

 

La storia

 

 La protagonista Isako Yamazaki vede la sua vita stravolta il giorno in cui è nominata giurata nel processo ad una madre accusata di aver annegato la sua bambina di 8 mesi mentre le faceva il bagno. Ysako fino a quel momento conduceva una vita tranquilla con la figlia Ayaka di 3 anni e il marito. Il processo si apre con l'imputata Mizuho ritratta come una donna egoista, sedotta dal lusso, che odia la sua bambina perchè non riesce ad allattarla. Già prima del processo, agli occhi della società giapponese, il caso è chiuso e Mizuho è colpevole. Ma mentre la trama si dipana e i testimoni salgono sul banco degli imputati, ognuno dei giurati riflette sulla propria vita e si trova a mettere in discussione le proprie scelte. La più colpita dal processo è Risako (la protagonista), che finisce per identificarsi totalmente con l'accusata e la sua vita inizia a incrinarsi.

In un crescendo, in cui la figura della giurata e quella dell’assassina finiscono per sovrapporsi, brani di memoria della vita dell’una e dell’altra riaffiorano attraverso continui flashback in una sorta di après-coup dei loro traumi. La violenza psicologica è reale, devastante e onnipresente: ogni parola apparentemente aneddotica o banale assume un peso sempre maggiore man mano che la storia procede, con il potenziale dramma e gli errori che si profilano all'orizzonte davanti a un pubblico impotente. La maison de la rue en pente è particolarmente interessante perché, come la sua protagonista, ci lascia spesso interrogare: qual è la "normalità" di un genitore? Cosa è "normale" per un essere umano? Che cos'è la violenza morale? Dove inizia l'abuso di un bambino da parte di un adulto e dove inizia l'abuso di un altro adulto da parte di un adulto?

La serie punta chiaramente il dito contro il patriarcato e il conservatorismo della società giapponese. Attacca i meccanismi ossessivi di controllo che le sue istituzioni mettono in atto nel tentativo di disciplinare anche i comportamenti privati che potrebbero essere sopraffatti dalle emozioni e dagli affetti, stigmatizzando le  procedure legali di inquisizione, sovente crudeli nella loro ineccepibile esecuzione. Ma spostando la colpa sul patriarcato e l’arretratezza delle mentalità, manca nel riconoscimento della realtà dei fantasmi inconsci  profondamente incistati nella psiche umana e in particolare nelle madri da cui con il  patriarcato e le norme sociali le società pretenderebbero difendersi.

L’infanticidio in effetti non è solo il prodotto dei codici sociali e normativi di una organizzazione sociale. Il fantasma di morte nei confronti del figlio abita la realtà psichica di tutte le madri, e può attualizzarsi per quelle per le quali l'esperienza della costruzione del legame primario rimane infestata da un impensabile, come un grido di aiuto lanciato da una condizione di Hilflosigkeit non raccolto che prenderà poi nella loro vita la forma di una condanna radicale della relazione e quella di una estrema sofferenza.

Un bambino sta morendo... una madre è in agonia... È su questo sfondo di infinita angoscia che Ysako si identifica all’imputata e noi ci identifichiamo come spettatori a lei, come aspirati in un vortice di dolore. Episodio dopo episodio la scena della caduta dell’infante nell’acqua si ripete sotto gli occhi di una madre stordita dall'orrore, una madre che può solo pensare di fondersi con il bambino nella morte. La problematica delle madri infanticide mette in effetti alla prova ciò che nella prima relazione tra il nuovo nato e l’oggetto primario era rimasto in uno stato di pura eccitazione, come traccia incancellabile del fallimento del legame tra un’esperienza del corpo e una esperienza soggettiva.

 

Le madri che uccidono

 

Quello che è inscritto nella soggettività materna come esperienza di paura, di agonia primitiva (legata al ritiro dell'amore materno, qualunque ne sia l'origine) verrebbe rimobilitato nella successiva relazione simbiotica con il bambino. Questa fusione verrebbe poi coinvolta in una zona traumatica originaria nella misura in cui riporterebbe la madre a un'esperienza di crollo già avvenuto (sperimentato ma impensabile, nel senso in cui lo intende D.-W. Winnicott). Questo crollo della soggettività, indicatore del fallimento radicale dell'incontro con l'oggetto primario, rimane dunque interiorizzato in forma incistata. L'infanticidio, in un contesto di agonia, sarebbe l’attualizzazione di un trauma che ha influenzato la costruzione iniziale del legame con l'oggetto e il “contratto narcisistico di attaccamento” (R. Roussillon, 2002, p. 91) che organizza le prime forme del legame. Così, nella disperazione di un oggetto che rifiuta di essere usato (perché inutilizzabile, imprevedibile, irraggiungibile, assente, ecc.), l'infanticidio può assumere la forma di un tentativo narcisistico di recuperare un oggetto che allora può essere posseduto per sempre. In questo senso può essere inteso anche come il tentativo di ricucire la simbiosi originaria creata-recuperata attraverso un narcisismo mortifero che ripete il fallimento dell'incontro con l'oggetto e la storia di una soggettività ferita a morte. I tentativi di suicidio di queste madri che desiderano ritrovare la persona amata riflettono, seguendo Roussillon, forse una “colpa primaria” (Roussillon, 2012) impiantata al cuore della psiche e legata all'incapacità del soggetto di usare l'oggetto; un fallimento narcisistico che trova il suo segno in uno stato di angoscia e disorientamento rinnovato nel passaggio all’atto.

L’esperienza del divenire madre comporta una riorganizzazione del legame primario. Seguendo le proposte di Hélène David (1999), possiamo ritenere che l'infanticidio faccia parte di una configurazione in cui “queste madri cercano di mettersi al mondo dando la vita [...]” e si pongono in una posizione di “maternità per proiezione” (p. 40). H. David sottolinea la dimensione simbiotica della relazione tra queste donne e il loro bambino e la loro difficoltà a separarlo dalle proprie esperienze di abbandono e/o di crollo.

Con grande intuito il regista inquadra sempre Mizuho seduta sul banco degli accusati con lo sguardo rivolto verso il basso per evidenziare la sua rinuncia a ogni pretesa affettiva e pulsionale nei confronti dell’altro, alza gli occhi soltanto una volta, quando sente vibrare di affetto per lei le parole che la protagonista le rivolge, di comprensione e riconoscimento. H. David sottolinea una mancata strutturazione del legame di sguardo che fonda lo specchio riflessivo di cui D.W. Winnicott (1967) ha potuto dimostrare l'importanza nello sviluppo della soggettività del bambino. Come sottolinea F. Gantheret (1987), “perdere è prima di tutto perdere di vista”.

Per Mizuho, nonostante l’esito in definitiva clemente del processo, il delitto appare come un modo per condannarsi a una sofferenza inestinguibile. Più che un'identificazione con una “madre morta” è un'identificazione con il figlio morto, perso per sempre.

 

 

Roussillon R., Agonie et désespoir dans le transfert paradoxal, in André J. (dir.) Le temps du désespoir : 67-96. Paris, Puf, 2002.

Roussillon R., Agonie, clivage et symbolization, 78-94, Paris, Puf, 2012

David H., Les mères qui tuent, in André J. (dir.), La feminité autrement, 33-53. Paris, Puf, 1999

La Maison de la rue en pente Regia di Yukihiro Morigaki 2019 Arte TV. Commento di Aurora Gentile
Dal 20/01/2025
Modulo di iscrizione

20/01/2025

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