La bella estate. Commento di A. Gentile

 

La bella estate. Regia di Laura Luchetti (2023)

Commento di Aurora Gentile

 

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse…”. Inizia così il romanzo breve di Cesare Pavese (1940), a rendere tutta la spensieratezza di una delle protagoniste Ginia, che, nel film come nel libro, corre verso il lavoro attraversando una Torino in una luce estiva che suggerisce serenità. Sembra quasi voler scongiurare la malinconia, alla quale noi invece ci predisponiamo, sapendo che il premio Strega per La bella estate (1950) precede di appena due mesi il suicidio dell’autore.

Il film, presentato in prima mondiale al Festival di Locarno (2-12 agosto), è un libero adattamento di uno dei racconti della trilogia di Pavese, pubblicata nel 1949, che comprendeva tre testi, scritti in periodi diversi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948) e Tra donne sole (1949).

L’estate stagione effimera e piena d’incanto è lo scenario di una storia che mette al centro l’amicizia tra due ragazze, l’amore e la morte. Un viaggio d’iniziazione e come tale doloroso, ma c’è l’estate da vivere, prima che venga l’autunno, il tempo degli addii e poi forse nuove avventure.

 “A Ginia pareva di non aver mai capito prima che cosa fosse l’estate, tanto era bello uscire ogni notte per passeggiare sotto i viali”.

La trama del romanzo coincide con quella del film tranne che nel finale. Siamo a Torino, è il 1938. Ginia nel racconto ha sedici anni: il futuro sembra offrirle infinite possibilità ma sul presente, non solo il suo, incombono le ombre della Seconda guerra mondiale. Ginia, orfana, vive assieme al fratello Severino e lavora come sarta in un atelier di moda. Conosce la più esperta Amelia che l’introduce nel mondo disordinato degli artisti che frequenta come modella. I pittori attizzano la curiosità di Ginia: è un mondo estraneo e eccitante che Ginia ha difficoltà a interpretare, ma che accende il suo desiderio di essere vista e di guardarsi. “Vorrei che ritraessero anche me, per vedere come mi vedono gli occhi degli altri”. Amelia porta Ginia a conoscere due artisti Rodriguez e Guido di cui Ginia si innamora, è un amore intersecato dall’amore di Amelia per Ginia e dalla sua gelosia nei confronti di Guido. Dopo molte esitazioni, Ginia si decide a fare l’amore con lui e a posare nuda, ma è sopraffatta dalla vergogna perché incautamente si è esposta anche agli sguardi degli amici che la prendono in giro, è un’emozione che coinvolge tutto il suo essere e un sentimento di estraneità da se stessa e dagli altri la rende consapevole dell’insanabile opacità della sua relazione con loro. Si trasforma così anche la sua amicizia con Amelia, che si svela come una sorta di suo alter-ego malato quando nel dichiararle il suo amore le dice di aver contratto la sifilide durante un rapporto con un’altra donna e le mostra il seno infetto. È un tempo di passaggio per Ginia che si conclude con la fine dell’estate, che termina come l’amore per Guido con il suo strascico inevitabile di delusione e la relazione con Amelia. Resta soltanto la nostalgia per la bella stagione che non tornerà più.

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce”. 

“La storia di una verginità che si difende”, così Cesare Pavese definì la sua raccolta di racconti, ma inutilmente perché la verginità mitica dell’infanzia, l’innocenza dei ragazzi che vedono e leggono il mondo ancora con gli occhi di bambino per scoprire più o meno traumaticamente che quel mondo lo si perde quando si cresce, è «un’innocenza già precaria, propria di un mondo dal quale è assente la festa» (Pavese C., Il mestiere di vivere Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 2020).  

Cesare Pavese ha incentrato un’ampia parte della propria dimensione estetica sul problema di un’infanzia tormentata e tradita. Nel personaggio di Ginia però Pavese trasferisce non soltanto le delusioni, le aspettative irrealizzate, ma anche la bellezza dei sogni e la leggerezza dei cuori giovani, la loro vulnerabilità ai sentimenti, il grande coraggio anche di esporsi e mettersi in gioco. Che resta di tutto questo nel film?

Laura Luchetti racconta che “il suo film è sul corpo di una ragazza che cambia e si trasforma spinta dal desiderio di esistere, essere visto e amato. Ginia assomiglia così tanto a una ragazza di oggi, in quel momento della vita in cui si diventa adulti, si trattiene il respiro e si mette in moto la libertà più grande, quella di scegliere come amare”.  

La comunità LGBTQIA+ ha accolto favorevolmente questo film e lo ha inserito tra i film della sua comunità. E a ragione, perché il film parla di una difficile identità sessuale da conquistare. Nel racconto di Pavese però il bacio che si scambiano le due ragazze appare piuttosto come un tentativo di dare un senso alla loro esistenza, di definire un sessuale polimorfo che al di là dei confini di genere desidera più di tutto desiderare, che sia un oggetto d’amore, un altrove, una quinta stagione. Il romanzo di Pavese, dunque, subisce una trasformazione narrativa nel suo adattamento cinematografico, passando da una narrazione di un’infanzia innocente in trasformazione a una profonda metamorfosi. La storia di Ginia è per la regista uno specchio delle esperienze di innumerevoli donne, del loro tumultuoso viaggio verso la conquista di un’identità sessuale in una società patriarcale e per lei è come una forma di autoaffermazione al femminile. Ma non ci sembra che il racconto di Pavese affronti il tema dell’orientamento sessuale, al centro sono i travestimenti dell’amore, dei suoi bagliori e dei suoi disincanti e le sue promesse non mantenute: “della mia infanzia non mi restava altro che l’estate” (Il diavolo in collina), scrive Pavese, il suo campo emotivo più autentico in cui e per cui agisce la sua  macchina mitologica è quello della mancanza e della nostalgia e la testimonianza di ciò che irrimediabilmente si perde sapendo che nessun ruolo salvifico può essere svolto. La scrittura pavesiana è portatrice di «una ferita da sanare». Che è anche quella di ogni adolescente quando giunge il tempo della separazione dal bambino che è stato.

Sebbene l’intento del film sia forse quello di voler presentare la narrativa atemporale di Pavese a una nuova generazione tentando di dire del nuovo sull’amore, gli strati profondi del materiale di partenza non sono neanche affrontati. Ed è un peccato, perché il film si addossa al capolavoro di Pavese, così parlante delle vicissitudini degli adolescenti di oggi, piegandolo alle esigenze dell’hic et nunc dei giorni e anni che stiamo vivendo, come del resto mostra il lieto fine dell’amore reciproco e infine riconosciuto delle due ragazze.

La bella estate. Commento di A. Gentile
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02/10/2023

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